Maidan di Sergei Loznitsa

Category : Dai festival, Film

Maidan, vincitore del concorso internazionale lungometraggi al 55° Festival dei Popoli, è l’ultimo film del regista ucraino Sergei Loznitsa. Autore importante nell’ambito del documentario internazionale contemporaneo, con film come Settlement, Portrait o Landscape ha ritratto la Russia più profonda e i suoi abitanti, dando vita a un’opera coerente che denota uno sguardo originale, nutrito da una profonda riflessione formale.

Sergei Loznitsa al Festival dei Popoli 2014

Sergei Loznitsa al Festival dei Popoli 2014

Maidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei Loznitsa

Alberto Lastrucci, il direttore del Festival dei Popoli, con Sergei Loznitsa

Alberto Lastrucci, il direttore del Festival dei Popoli, con Sergei Loznitsa

Maidan è la grande piazza nel centro di Kiev, teatro della rivoluzione popolare che ha portato alla caduta del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Quello di Loznitsa è un film corale, che ritrae il popolo nella piazza nel corso degli eventi, realizzato a partire da 200 ore di girato e composto di una successione di piani fissi, ciascuno dei quali descrive uno specifico momento o situazione, dai primi momenti di gioia popolare ai tragici sviluppi degli ultimi giorni di scontri. Loznitsa ha spiegato come dopo aver deciso di girare solo piani fissi la cosa più difficile sia stata resistere alla tentazione di muovere la telecamera, perché nell’agitazione della piazza c’era continuamente la sensazione di stare perdendo qualcos’altro di importante. D’altro canto la scelta di piani fissi di durata prolungata permette al regista di dedicare attenzione alla composizione dell’inquadratura perfino nel caos degli scontri e conferisce a Maidan una potenza e un impatto visivo sconosciuti ad altri film su eventi rivoluzionari girati (come sembrerebbe a prima vista più logico) con la camera a mano e movimenti rapidi in sintonia con l’agitazione della folla. Tra l’immensa mole di materiale non entrato nel montaggio finale di 130′ Loznitsa ricorda in particolare alcune riprese ravvicinate dei momenti più tragici, con manifestanti feriti o uccisi. Per ragioni legate alla drammaturgia complessiva del film il regista spiega di non avere incluso quelle immagini, sostituendole con altre prese da maggiore distanza dai reporter della televisione, perché l’impatto emotivo di quelle scene era talmente violento che avrebbe portato lo spettatore fuori dal film, spezzandone il flusso narrativo. Maidan è in effetti, come sottolinea Loznitsa, un film senza eroi, che vuole descrivere il popolo come un insieme di persone di diversa età ed estrazione sociale, senza identificarsi in una figura rappresentativa (il regista ricorda a questo proposito Sciopero di Eisenstein). Loznitsa spiega di avere fatto la scelta dei piani fissi e di lunga durata anche per distanziarsi dalle immagini dei fatti veicolate dai media russi, che attraverso il montaggio di piani molto brevi manipolavano in quei giorni la realtà. In Maidan vediamo in effetti solo sullo sfondo i paramilitari nazionalisti con tuta mimetica, elmetto e passamontagna, che anche secondo i media internazionali non russi avrebbero dato un importante contributo nella lotta contro i “Birkut”, le forze speciali di Janukovyč. I paramilitari venivano sempre mostrati dai media russi per provare che c’era una regia dietro il sollevamento popolare. Loznitsa ci mostra invece una vecchietta in prima fila davanti alle forze speciali schierate che viene bonariamente indotta a stare più indietro da un infermiere, giovani volontari che preparano la zuppa in grandi pentoloni, una signora che distribuisce mascherine alle persone che raccolgono le ceneri prodotte dalle macerie bruciate perché si proteggano dalla polvere, la grande folla commossa che rende omaggio alle vittime.
Una cosa è certa: ancora una volta Loznitsa ha realizzato un film dalla forte impronta personale, frutto di una profonda riflessione formale.

Mario Tolomelli

Andrés Di Tella al Festival dei Popoli

Category : Dai festival

Andres-Di-TellaLa retrospettiva organizzata dal Festival dei Popoli e curata da Daniele Dottorini ha permesso di apprezzare l’importanza dell’opera di Andrés Di Tella, posto da Paulo Antonio Paranaguá, nel fondamentale volume Cine documental en América Latina,1 tra i documentaristi latinoamericani più rilevanti di tutti i tempi (accanto a Santiago Álvarez e Patricio Guzmán, per citare i più conosciuti in Europa).  Oltre alla qualità delle opere presentate, molte delle quali proiettate per la prima volta in Italia, non ha lasciato indifferenti lo spessore del cineasta che, realmente desideroso di condividere riflessioni e ragionamenti sul processo creativo, ha trasformato il tradizionale “dibattito” in una sorta di seminario a puntate, culminato nel workshop conclusivo sul quaderno degli appunti e il film diario.
Il documentario racconta storie che nessuno sceneggiatore avrebbe potuto inventare2
Discendente da una importante famiglia argentina di origine italiana, distintasi in campo economico (il nonno, sorta di Agnelli argentino, aveva fondato un impero industriale) e culturale (il padre ha fondato l’Istituto Di Tella, che ha avuto un ruolo fondamentale nella cultura argentina degli ultimi 50 anni), Andrés Di Tella ha studiato a Oxford, ha insegnato in varie università e ha realizzato a partire dagli anni ’80 documentari di stampo tradizionale per la televisione inglese (Channel 4) e americana (WGBH, affiliata di PBS). Questa esperienza gli lascia un senso di frustrazione per i limiti che i documentaristi si autoimpongono, e lo fa “urtare contro le pareti del genere”.3 Ritornato in Argentina nel 1992, realizza negli anni una serie di lungometraggi documentari di impronta sempre più personale, caratterizzati da una miscela originalissima di storia familiare e nazionale, e da una profonda riflessione sul rapporto tra l’autore e la propria opera, tra l’oggetto della ricerca e il processo stesso del ricercare.
Montoneros, una historia (1995): attraverso il racconto di Ana, ex militante dei Montoneros, sopravvissuta alla detenzione nella famigerata ESMA (Escuela de Mecánica de la Armada) durante la dittatura militare argentina, si ricostruisce lo stretto legame tra vita personale e militanza politica di una generazione.
Macedonio Fernández (mediometraggio, 1995) è un viaggio attraverso la Buenos Aires di Macedonio Fernandez, “uomo che rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero”,4  scrittore argentino celebre per l’elogio riservatogli da Borges, che dichiarò di averlo imitato in gioventù fino alla trascrizione e al plagio. A fare da mentore e narratore è lo scrittore argentino Ricardo Piglia.
Prohibido (1997) è una investigazione e una riflessione sui rapporti degli intellettuali e dei media argentini con la dittatura che governò il paese tra il 1976 e il 1983 e che si autodefinì eufemisticamente “Processo di riorganizzazione nazionale”. Attraverso la rievocazione di storie individuali, tra collaborazione, resistenza sotterranea, tragedie personali, si compone un quadro degli anni cupi della dittatura.
La televisión y yo (2003): avendo vissuto all’estero per numerosi anni nella propria giovinezza, al regista mancano buona parte dei riferimenti televisivi posseduti dai suoi coetanei argentini. Di Tella afferma di aver voluto fare un film sul significato della televisione nella vita di una persona; fallito il progetto iniziale, a causa appunto delle lacune nel proprio background televisivo, l’autore si dirige verso un’altra storia che vede emergere durante le proprie ricerche: quella di Jaime Yankelevich, pioniere della televisione argentina. La scarsità di materiali su Yankelevich lo costringe però a cambiare ancora direzione, e si dirige a questo punto verso la storia del nonno, Torcuato Di Tella, la cui impresa, la SIAM, produsse i primi televisori argentini.
Fotografías (2007): non sapere dove il proprio film andrà a parare, tentare varie direzioni, andar incontro a insuccessi, lasciarli nel film perché fanno parte della ricerca, lasciar passare del tempo. Prendere nota per un anno delle idee sull’argomento ogni volta che si presentano, su una serie di taccuini. Ritrovare rileggendo quei taccuini il senso del film. Rimontare i materiali girati come se fossero archivi, in assonanza con il contenuto dei taccuini. Così Di Tella racconta la storia della realizzazione del film Fotografías, una esplorazione delle proprie radici familiari che lo porterà in India, sulle tracce della madre, la psicologa indiana Kamala Apparao. Attraverso un film sull’identità e la famiglia il regista arriva a parlare della storia collettiva.

Andrés Di Tella e Daniele Dottorini al Festival dei Popoli 2008

Andrés Di Tella e Daniele Dottorini – Festival dei Popoli 2008

El país del diablo (2008), presentato lo stesso anno in concorso al Festival dei Popoli, è un viaggio nel sud dell’Argentina, sulle tracce di Estanislao Zeballos, intellettuale e pubblicista, prima fautore dello sterminio degli indios messo in atto nella seconda metà dell’Ottocento, poi studioso della cultura Mapuche – Araucana e antropologo ante litteram. All’inizio compare il territorio vuoto, la Pampa, che reca tracce della storia; poi il regista incontra delle persone, gli ultimi discendenti degli indios, che cercano di preservare quel che è rimasto della loro cultura ancestrale e che, paradossalmente, trovano proprio negli scritti di Zeballos una delle fonti per il recupero delle loro radici.
Hachazos (2011) è un film su e con il cineasta Claudio Caldini, personaggio solitario e dimenticato, autore di film sperimentali in Super 8, realizzati in modo totalmente autonomo e amatoriale. Con una traiettoria di vita complessa, ammiratore di Fischinger, Caldini si è avvicinato da ragazzo al cinema, per un interesse di natura tecnica, sulle orme del padre (un po’ come Alberto Grifi). Il film racconta l’incontro, non sempre facile, tra l’autore e Caldini; le difficoltà fanno però parte del processo di realizzazione, che Di Tella non vuole occultare, essendo programmaticamente contrario alla neutralizzazione e “normalizzazione” del racconto cinematografico.

Dalla sovrabbondanza di materiali raccolti e non utilizzati durante la realizzazione degli ultimi documentari nasce il progetto di realizzare delle installazioni sui temi dei film. Quella dal titolo Fotografías includeva tre schermi: nel primo le vignette di un fumetto pubblicato in Argentina negli anni ’50-’60, Misterix, ambientato in un’India esotica e immaginaria, alla Salgari; nel secondo foto della famiglia italo-argentino-indiana dell’autore; nel terzo immagini tratte da un libro divulgativo pseudo-scientifico dei primi del ’900, People of the World. Anche per Hachazos viene realizzato oltre al film una installazione e un libro: Hachazos. Biografía experimental sobre Claudio Caldini.

Per comprendere il punto di vista di Andrés Di Tella sul cinema documentario si può partire dal suo scritto El documental y yo,5  una dichiarazione di poetica in cui, dopo aver analizzato il ruolo del regista-performer in Rouch, Lanzmann, McElwee, Mograbi e Broomfield, Di Tella conclude che la presenza del documentarista sullo schermo costituisce una tattica che mette in dubbio la pretesa “oggettività” del documentario realizzato con la modalità “fly on the wall” (definita da Di Tella una utopia e una fantasia), sostituendola con una attitudine più onesta e forse più credibile. Ciò non impedisce al regista argentino di identificarsi “con una tradizione che miscela ‘insidiosamente’ il registro documentario e quello drammatico”.6 A caratterizzare i suoi ultimi film infatti, oltre all’elemento “performativo”, secondo la terminologia di Bill Nichols7 cioè il coinvolgimento personale del regista che appare sullo schermo, è anche la presenza di elementi finzionali introdotti allo scopo di poter meglio rappresentare situazioni reali. Ad esempio l’attacco di vertigini sofferto da Di Tella in Fotografías è messo in scena per dare una espressione fisica al disagio e alla resistenza psicologica (reale) da lui provata prima della partenza per l’India. “L’obbligazione etica del documentarista, il patto con lo spettatore, consiste nel raccontare la verità, trovando le forme che riflettano, fino a riprodurla, una determinata esperienza reale del personaggio”.8 Ciò per cui i film di Di Tella restano senz’altro nella memoria dello spettatore è la straordinaria ricchezza semantica che l’autore riesce a estrarre dalla realtà, raccontando più storie allo stesso tempo,  senza nascondere i fracasos, ovvero gli insuccessi, spesso carichi di significati: “I am increasingly a believer in the eloquence of mistakes and failures”.9 Il regista quindi non è onnisciente, è al contrario fallibile, proprio come noi, suscitando l’identificazione dello spettatore, e come noi è anche molto curioso: secondo Clara Kriger, Di Tella “sceglie il cinema documentario perché pensa che sia un campo che gli offre la possibilità di dare pienamente sfogo alla sua ‘insaziabile curiosità per il mondo reale delle persone e delle loro storie vere’”.10

Mario Tolomelli

—————————————————————————-

Il blog di Andrés Di Tella

Il catalogo del Festival dei Popoli 2012 contenente un articolo su Andrés Di Tella e una intervista al regista argentino, entrambi a cura di Daniele Dottorini, uno scritto di Di Tella sul film Hachazos e le schede dei film presentati nella rassegna (pp. 99-153).

Intervista a Andrés Di Tella, a cura di Daniele Dottorini, realizzata nell’ambito del 53° Festival dei Popoli

  1. Paulo Antonio Paranaguá (a cura di), Cine documental en America Latina, Catedra, Madrid, 2003, pp. 261-266
  2. Entrevista a Andrés Di Tella, precursor del documental autobiográfico en la Argentina, a cura di Pablo Piedras e Lior Zylberman, Cine Documental n. 4, anno 2011
  3. Andrés Di Tella, El documental y yo, pubblicato originariamente in: Paul Firbas e Pedro Meira Monteiro (a cura di), Andrés Di Tella: Cine documental y archivo personal. Conversación en Princeton, Siglo XXI, Buenos Aires, 2006; poi ristampato in:  César Maranghello, Jorge Ruffinelli, Antonio Weinrichter, Casimiro Torreiro (a cura di), El cine documental de Andrés Di Tella, Junta de Andalucía, 2011, pp. 171-180; ristampato anche in: Amir Labaki, Maria Dora Mourão (a cura di), El cine de lo real, Colihue, Buenos Aires, 2011, pp. 55-64
  4. J. L. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano, 1997, vol. 2°, p. 799
  5. Andrés Di Tella, El documental y yo, cit.
  6. Clara Kriger, Andrés Di Tella, in Paranaguá, cit., p. 261
  7. Bill Nichols, Introduzione al documentario, Il castoro, Milano, 2006, p. 137-143 (nella traduzione italiana “The performative mode” è tradotto “La modalità rappresentativa”)
  8. Entrevista a Andrés Di Tella, precursor del documental autobiográfico en la Argentina, cit.
  9. Andrés Di Tella, The Curious Incident of the Dog in the Nighttime, in Alisa Lebow (a cura di), The cinema of me. The Self and Subjectivity in First Person Documentary, Wallflower, London, 2012, p. 40
  10. Clara Kriger, cit., p. 261

In concorso al Doclisboa 2012

Category : Dai festival

Doclisboa_2012_1Il Doclisboa arriva nel 2012 alla decima edizione, sotto il segno della profonda crisi economica e sociale che ha colpito il Portogallo con più violenza che in altri paesi. Anche a chi si trattenga a Lisbona solo per la durata del festival non possono sfuggire eloquenti indizi come i cartelli e le scritte di protesta per le strade o le manifestazioni davanti al palazzo di San Bento, sede del Parlamento. Nonostante i drastici tagli alle spese culturali il festival ha potuto offrire anche quest’anno una ricca programmazione tra film in concorso e fuori concorso.
Segnaliamo due film presentati nel concorso internazionale lungometraggi: People’s Park di Libbie D. Cohn, J. P. Sniadecki e Sofia’s Last Ambulance di Ilian Metev.

People’s Park di Libbie D. Cohn, J. P. Sniadecki, USA – Cina, 2012, 78′, colore, HD
People's Park Un film costituito da un unico, incredibile, virtuosistico piano sequenza girato nel corso di un giorno festivo in un affollato parco pubblico a Chengdu, nella provincia cinese del Sichuan.
People’s Park supera i limiti di quello che avrebbe potuto essere un semplice esercizio di stile e cattura lo sguardo (e l’udito) dello spettatore, trascinandolo in giro per il parco, verso persone e gruppi che passeggiano, chiacchierano, mangiano, ballano a suon di musica, o si danno a un’attività tipicamente cinese, la calligrafia. Il film ha comportato una non indifferente performance fisica da parte dell’operatore, dato l’uso ininterrotto della steadycam per oltre un’ora e un quarto. Nel giro di qualche minuto lo spettatore, inizialmente solo curioso, viene coinvolto in una sorta di trance visiva, una epifania cinematografica che lo tiene incollato allo schermo fino alla fine. Tutto questo è stato espresso nel modo migliore dal critico e curatore canadese Shelly Kraicer: “though it may start out with what feels like unadorned observation, slowly gathers a kind of ecstatic, trance-like groove, building to a rapturous climax, as people, movement, music, image and sound dance together: this is as close to pure pleasure as cinema can provide”1.
Il movimento – quasi estraneo alle leggi della fisica – della camera, che sembra muoversi su un cuscino d’aria, senza incertezze né passi falsi, è certamente frutto di una lunga e accurata pianificazione.  Ci sono però altri fattori legati alla rappresentazione dello spazio e dell’ambiente sonoro che hanno certamente contribuito alla riuscita del film e sui quali sarebbe interessante riflettere. La struttura apparentemente complessa del giardino e probabilmente l’itinerario prescelto dagli autori ha permesso loro di muoversi per 78 minuti in uno spazio, seppur ampio comunque finito, senza incorrere in sostanziali déjà vu, dando allo spettatore la sensazione di stare facendo un “viaggio” molto più esteso di quanto non fosse in realtà fisicamente. I suoni, e in particolare le musiche diegetiche legate a singoli luoghi (es. la pista da ballo), entrano ed escono dal campo uditivo e, contribuendo a marcare il passaggio da una zona all’altra del parco, accentuano anch’essi la percezione di movimento, di “viaggio” nello spazio. Altro ruolo importante svolto dal succedersi dei campi sonori è quello di contribuire a strutturare in capitoli il piano sequenza complessivo, in quanto se il paesaggio visivo non muta mai radicalmente nel corso del film, quello sonoro può permettersi una varietà molto maggiore, dal frinire delle cicale alla musica dance. Dal momento che ogni narrazione umana da tempi ancestrali utilizza la struttura del viaggio e delle tappe, questa scansione di fatto della macrosequenza in capitoli è certamente un altro dei fattori che contribuiscono a tener viva l’attenzione dello spettatore di fronte a un film apparentemente così inusuale.
Se People’s Park si impone all’attenzione per le sue caratteristiche visive, non va però sottovalutato il suo valore “etnografico”: alla fine del film, oltre ad avere assistito a uno spettacolo di puro cinema, lo spettatore ha sfiorato con lo sguardo centinaia di persone di tutte le età impegnate nelle più varie occupazioni e senza accorgersene ha appreso molto sulle abitudini e i passatempi degli abitanti di Chengdu.

 _______________________________________________________

Sofia’s Last Ambulance di Ilian Metev, Bulgaria – Croazia – Germania, 75′, colore, HD
Un medico, un’infermiera, l’autista di un’ambulanza e molte, molte buche. I protagonisti di questo film corrono ogni giorno avanti e indietro per le strade della capitale bulgara e della sua periferia, lavorando duro con gli scarsi mezzi a disposizione per salvare vite e aiutare persone con problemi di ogni genere. Girato a Sofia nell’arco di due anni, esempio riuscito di cinema diretto, il film è basato su una evidente complicità dei protagonisti tra loro e con la troupe, costituita da due sole persone: regista e fonico. Lo spazio ridotto a bordo di un’ambulanza in servizio, la necessità di non intralciare durante gli interventi e di rispettare la privacy dei pazienti ha determinato alcune scelte di regia. Metà delle immagini che costituiscono il film sono infatti state girate attraverso una telecamera posizionata sul cruscotto, mentre regista e fonico si trovavano, invisibili, nella parte posteriore dell’ambulanza. I tre membri della squadra sono ripresi a turno, in primo piano, senza nessuna possibile profondità di campo, con la parete posteriore dell’abitacolo immediatamente dietro le spalle. Questo contesto estremamente limitativo passa in secondo piano grazie all’interazione umana che si sviluppa tra i protagonisti e al ruolo catalizzatore dell’estroversa infermiera Mila. L’altra metà delle immagini è girata camera a spalla durante gli interventi, che vanno dall’attacco cardiaco all’incidente stradale, all’assistenza a tossicodipendenti; dei pazienti si vedono i corpi, ma mai i volti. Il film evita rigorosamente ogni spettacolarizzazione dei contesti a volte tragici, concentrandosi sulle emozioni dei membri della squadra e sull’andamento della loro motivazione, alle prese con una professione non facile, con le ripercussioni dei tagli alle spese sanitarie e, a volte, con i propri problemi personali. Già premiato tra l’altro a Cannes e Karlovy Vary, il film ha vinto il Prémio especial do Júri Doclisboa – Menção Especial, che non sarà certamente l’ultimo.
M.T.

Pagina di Wikipedia dedicata al film

Sito ufficiale del film

 _______________________________________________________

  1. v. la scheda di People’s Park redatta da Shelly Kraicer per il Vancouver International Film Festival:  http://www.viff.org/festival/films/f5218-peoples-park

Master class di Jean-Henri Meunier

Category : Dai festival

Jean-Henri-MeunierVenerdì 11 maggio 2012 a Madrid Jean-Henri Meunier ha incontrato il pubblico della Documenta. Nel corso di una conversazione fiume Meunier racconta come partendo dalla fotografia è approdato al cinema grazie in particolare all’incontro con Henri Langlois, il fondatore della Cinémathèque française. Nel 1975 gira quindi il suo primo film, L’Adieu nu, con Michael Lonsdale. Seguono altri due film di finzione, poi a causa di incomprensioni con i produttori non realizza più film per diversi anni e passa a occuparsi di produzione musicale. Alla fine degli anni ’80 un altro incontro, con il musicista Maurice Cullaz, che lo introduce nel mondo del grande jazz internazionale, lo porta a realizzare una serie di documentari musicali. Sottolineando l’importanza degli incontri nel suo percorso professionale e intellettuale, Meunier afferma che bisogna andare a incontrare le persone la cui opera e le cui idee ci toccano profondamente, affidandosi all’istinto ed evitando di farsi troppe domande a priori, per non rischiare di rimanere bloccati nell’inazione. Trasferitosi con la famiglia a Najac, un paesino dell’Aveyron, nel sud della Francia, Meunier inizia a filmare alcuni abitanti con cui ha fatto amicizia, in un’ottica di cinema di famiglia. Con il passare degli anni si rende conto di aver accumulato un archivio colossale, di diverse centinaia di ore. Quando decide di farne un film impiega nove mesi solo per il déruchage, ovvero repertoriare il girato in preparazione al montaggio. Con il montatore, Yves Deschamps, vengono quindi montate tutte le singole sequenze come un puzzle di cui non si conosce ancora il disegno complessivo, e solo nelle ultime settimane di montaggio viene definita la successione delle sequenze. Ne nasce il film La Vie comme elle va, trasmesso dal canale franco-tedesco ARTE nel 2003 e uscito in sala nel 2004 (Grand Prix SCAM du documentaire de création 2004). Dal mare magnum del girato vedranno successivamente la luce altri due lungometraggi: nel 2006 Ici Najac, à vous la terre (candidato al César 2007 per il miglior documentario) e nel 2011 Y’a pire ailleurs. Questi tre film vanno a costituire una “trilogia di Najac”, i cui protagonisti, dal surreale capostazione, al pensionato filosofo, al vecchio meccanico che scava piscine e costruisce elicotteri, finiscono per divenire dei veri e propri personaggi cinematografici, inducendo negli spettatori il desiderio di ritrovarli per seguirne le nuove avventure. Ma non si tratta semplicemente di una abile costruzione, e se lo spettatore che ha visto i primi due film finisce per commuoversi  guardando il terzo è perché riconosce nello sguardo partecipativo di Meunier restituito dal film una grande carica di umanità, che spazza via ogni sospetto di voyeurismo anche dalla rappresentazione delle situazioni più intime.

Il sito ufficiale di Jean-Henri Meunier:

http://www.jeanhenrimeunier.com/official/

Press book del film La vie comme elle va (in francese):

http://download.pro.arte.tv/archives/fichiers/01651029.pdf