La línea paterna, film pioniere nel riuso degli home movies in Messico
Category : Films
Le immagini provenienti da pellicole di formato sub-standard, originariamente girate in ambito familiare, sono divenute negli ultimi anni un elemento sempre più spesso presente nell’impianto dei film di non fiction, che ne fanno in genere un uso sporadico, miscelandole ad altri tipi di materiali, come fotografie, immagini di archivio ufficiali, documenti, interviste. Alcuni film sono invece realizzati a partire unicamente o prevalentemente da home movies, provenienti da famiglie differenti e quindi utilizzati come puro found footage, oppure provenienti da un’unica famiglia e utilizzati in modo filologico per rievocare la storia o le storie di quella particolare famiglia. Appartengono a quest’ultima tipologia opere che in genere attingono a fondi di pellicole particolarmente rilevanti sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, come ad esempio King of Velichovky di Jan Šikl, The Diary of Mister N. di Péter Forgács o Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi.
È anche il caso di La línea paterna1 di José Buil Ríos e Maryse Sistach Perret, pionieri nel riuso dei film di famiglia in Messico.2 “Piccolo capolavoro inatteso del cinema più intimo e profondo”,3 diviso in capitoli scanditi da cartelli che richiamano quelli in uso nei film muti, rievoca la storia della numerosa famiglia del dottor José Buil Belenguer, nonno dell’autore e medico a Papantla, nello stato di Veracruz, Messico occidentale, grazie alle oltre trecento pellicole in formato 9,5 mm Pathé Baby da lui girate a partire dal 1925 e alle innumerevoli fotografie di famiglia.
Papantla si situa fin dall’inizio in una dimensione magica, onirica, fatta di suoni – il canto del Papan, uccello frequente nella regione, che dà il nome alla cittadina5 – di odori – “a otto chilometri di distanza il profumo della vaniglia annuncia la prossimità di Papantla”6 – di immagini – quelle del dottor Buil, resuscitate da tempi lontani. Grazie a queste immagini lo spettatore intraprende un viaggio attraverso la Papantla degli anni ’20 e ’30, che può far pensare al viaggio a Comala di Juan Preciado, protagonista di un capolavoro della letteratura messicana: Pedro Páramo di Juan Rulfo.7 “Venni a Comala perché mi avevano detto che qui viveva mio padre, un certo Pedro Páramo. […] Era il tempo della canicola, quando l’aria di agosto soffia infuocata, pervasa dall’odore greve delle saponarie.”8 Come la Comala di Rulfo si rivela abitata da fantasmi di persone morte, così la Papantla di Buil è abitata da fantasmi, che sono ormai solo immagini sullo schermo. Ma mentre il viaggio a Comala sarà fatale per Juan Preciado, noi ritorniamo da Papantla con un prezioso carico di memorie riportate in vita attraverso le pellicole del dottor Buil.
Le pellicole, rinvenute in un vecchio baule nella casa del dottore a Papantla (alcune in cattivo stato di conservazione), furono restaurate e gonfiate direttamente dal formato 9,5 mm al formato 35 mm presso la Filmoteca della Universidad Nacional Autonóma de México (UNAM), grazie a una attrezzatura messa a punto dal direttore della fotografia Arturo de la Rosa, che collegò un proiettore Pathé Baby a una cinepresa Bell & Howell 35 mm.9 Una antologia di queste immagini venne proiettata pubblicamente con il titolo Imágenes de Papantla,10 finché l’Instituto Mexicano de Cinematografía accordò il finanziamento al progetto per la realizzazione di un documentario in 35 mm basato sul materiale ritrovato. Secondo quanto riferisce Ivan Trujillo, direttore della Filmoteca UNAM, José Buil si presentò allora per chiedere le pellicole in modo da iniziare a montare il documentario. Gli venne ricordato che si trattava di internegativi realizzati per la preservazione delle immagini originali, che non potevano quindi essere tagliati al tavolo di montaggio e che a quello scopo era necessario ricavare ulteriori copie.11 Effettuato questo passaggio poté iniziare la lavorazione del film, che oltre alle immagini girate dal dottor Buil includerà alcune riprese in 35 mm e in video Hi8.12
“Grazie al cinema mio nonno torna a cavalcare”:13 fin dalle prime immagini si intuisce che il film si muoverà su un registro poetico e personale, accompagnato da un testo di indubbia qualità letteraria, “altrettanto o forse ancora più attraente delle immagini stesse”, come ha sottolineato Jorge Ruffinelli.14 Questo testo, scandito da una voce over dal tono colloquiale che impersona il punto di vista dell’autore, fornisce informazioni sulle immagini che appaiono sullo schermo e condivide con lo spettatore osservazioni, riflessioni, riporta ricordi dei membri più anziani della famiglia ancora in vita. Particolarmente illuminanti sono alcuni brani dal diario del nonno cineamatore e dalla lettera con cui il futuro suocero accettava di dargli la figlia in sposa, testi che come apprendiamo da Alfonso Morales Carrillo sono in realtà frutto della penna del nipote e regista, José Buil Ríos, che agisce come un “medium” dando voce agli antenati.15 Forse bisogna qui ricordare che l’autore, quando realizzò questo film, aveva già alle spalle una carriera come sceneggiatore e regista di film di finzione; con Maryse Sistach ha firmato a oggi una dozzina di lungometraggi.
“Senza essere eccezionale, la storia del nonno risulta interessante”:16 medico a Valencia, in Spagna, perde la moglie e i due figli ancora in tenera età a causa di un’epidemia nel 1909. Per lasciarsi alle spalle il dolore decide di emigrare in Messico, dove con lo scoppio della rivoluzione si trova a curare i combattenti. Si sposa e parte per la Spagna con la moglie; a Valencia nasce il loro primo figlio. Al rientro in Messico le strade sono interrotte per i combattimenti e la famiglia trova rifugio a Papantla, dove muore il primogenito. Finiscono per rimanere nella cittadina integrandosi alla società locale. Rapidamente arrivano altri figli e dopo alcuni anni arrivano anche da Parigi via Città del Messico il proiettore e la cinepresa Pathé…
Naturalmente le immagini del dottor Buil, come quelle di ogni cineamatore, si concentrano sulla rappresentazione della vita quotidiana nei suoi “momenti felici”:18 compleanni, festività, nascite, matrimoni, escursioni… Tocca così al nipote integrare la storia con le parti meno gioiose, rompendo il tabù osservato dal nonno, che per filmare le “persone care” seguiva fedelmente le istruzioni e i suggerimenti della ditta Pathé Frères. In montaggi cronologici vediamo invecchiare sullo schermo i membri della famiglia; la morte, il lutto, il cimitero fanno il loro ingresso nel documentario del nipote, che si potrebbe considerare nel suo insieme come una profonda riflessione sulla vita e la morte. Quest’ultima prende d’altronde l’iniziativa fin dall’inizio della lavorazione del film, con il decesso improvviso e inaspettato del padre dell’autore durante il primo sopralluogo a Papantla. “La línea paterna è in ultima istanza un commovente saggio sul tempo come feticcio e smarrimento, sulla errabonda condizione dei ricordi”19
Un certo numero di pellicole girate dal dottor Buil ritraggono scene di vita quotidiana a Papantla, in particolare le lunghe distese di fiori di vaniglia messi a essiccare lungo le strade, balli e festività pubbliche, e inoltre varie escursioni alla città precolombiana di El Tajin, nel corso delle quali i membri della famiglia scalano la Piramide delle Nicchie e assistono al suggestivo rito dei “Voladores”, tradizione totonaca precolombiana inglobata all’interno della festività del Corpus Christi: quattro uomini, con i piedi legati a una corda fissata alla sommità di un palo alto venti metri si gettano nel vuoto e compiono tredici giri a spirale verso il basso per completare cinquantadue serie (ciclo del calendario degli indios), mentre un quinto uomo danza su una piccola piattaforma in cima al palo suonando tamburo e flauto.20 Nell’insieme si tratta di straordinarie testimonianze storiche ed etnografiche sulla vita quotidiana degli anni ’20 e ’30 del ’900 nel Totonacapan, la regione nel nord dello stato di Veracruz in cui si trova Papantla.
La sensazione che le pellicole del dottor Buil siano di per sé documenti di eccezionale interesse e rarità, al di là del possibile “esotismo” per lo spettatore europeo, è confermata da Álvaro Vázquez Mantecón21 che sottolinea come, considerata la tendenza delle famiglie di classe medio alta (le uniche a potersi permettere l’acquisto dell’attrezzatura cineamatoriale, a maggior ragione nel 1925) a rimanere concentrate nella capitale, le pellicole filmate dal dottor Buil a Papantla furono probabilmente le uniche in un raggio di almeno duecento chilometri.
Negli stessi anni in cui il dottor Buil portava i figli in gita a El Tajin e filmava la Piramide delle Nicchie e i Voladores, un grande regista russo era arrivato in Messico, con il progetto di realizzarvi un film epico sulla storia del paese: Sergej Ėjzenštejn. Accompagnato dal direttore della fotografia Eduard Tissé e dall’aiuto regista Grigorij Aleksandrov, Ėjzenštejn filmò migliaia di metri di pellicola in vari luoghi del Messico, tra cui lo Yucatán con le sue gigantesche piramidi precolombiane. Il seguito della storia è noto: quel film sfortunato non poté mai essere terminato perché Ėjzenštejn non riuscì a ottenere dal suo produttore americano il denaro necessario per concludere le riprese e per di più gli fu ingiunto di rientrare a Mosca. Il materiale girato rimase nelle mani del produttore e fu utilizzato in molteplici montaggi non autorizzati da Ėjzenštejn, fino all’ultimo, che si suppone più filologico, realizzato nel 1979 (dopo quasi cinquant’anni dalle riprese e trenta dalla morte del regista), curato da Grigorij Aleksandrov, e intitolato ¡Que viva México! Chiunque abbia visto il film conserva impresso nella memoria il ricordo di quelle immagini fortemente contrastate, caratterizzate da una grande cura compositiva, indimenticabili. È stato criticato negli anni l’influsso che Ėjzenštejn ha avuto sul cinema messicano (intellettualismo europeo, estetica legata al film muto con ipertrofia del montaggio), tanto che secondo Nestor Almendros “per molti anni si ritenne che il buon cinema messicano dovesse necessariamente contenere una serie di ingredienti: tema sociale e di lotta, rivendicazione di temi popolari e primitivi, visione ieratica della realtà, fotografia ispirata alle arti plastiche, montaggio analitico dei piani, attitudine folklorica…”22 Ma il fascino delle immagini di Ėjzenštejn rimane innegabile.
Nel 1994 José Buil va a El Tajin con la cinepresa Arriflex per riprendere i luoghi in cui andavano in gita i suoi familiari sessant’anni prima. Incrocia degli indios totonacos di passaggio e decide di filmarli, prima di fronte poi di profilo, attuando una sorta di reenactment che imita la mise en scène dei ritratti familiari del nonno. Sia voluto o meno, quelle immagini evocano indubbiamente quelle del prologo di ¡Que viva México! girate da Ėjzenštejn nello Yucatán…
Nel suo interessante saggio La linea paterna, palimpsesto filmico, Salvador Velazco prende in considerazione e analizza separatamente il corpus di numerose ore filmato dal nonno e il documentario di 85 minuti realizzato dal nipote, come un paleografo cercherebbe di distinguere su una pergamena riutilizzata il testo originario.23 Velazco fa notare come la maggior parte delle pellicole girate dal dottor Buil consistesse in un unico piano (la stessa modalità delle vedute Lumière), e come le attitudini dei soggetti filmati riproducessero stilemi del cinema muto, quali la iperespressività, cosa ben comprensibile dato che tra le pellicole proiettate nella casa di Papantla c’erano anche versioni Pathé Baby di film comici e commedie (ma anche cartoni animati e documentari) francesi, spagnoli o statunitensi,24 che i giovani Buil avevano naturalmente in mente quando si trovavano a loro volta davanti alla cinepresa. A conferma di questo tra le pellicole girate dal dottore c’è una parodia di Chaplin intitolata Charlotada.25 È noto d’altronde che la prima opera di Ivens adolescente (De Wigwam, 1912) fu un western girato nel giardino di casa…
In questo contesto c’è però una specificità, una sorta di rito familiare, per cui ciascun componente della famiglia si presenta alla cinepresa abbozzando un inchino con la testa per poi mostrarsi alternativamente di fronte e di profilo. Questa stessa sequenza, ripetuta nel corso degli anni da tutti i componenti della famiglia davanti alla cinepresa finisce per diventare una sorta di “codice familiare”, anche se è possibile che traesse origine almeno in parte dalle istruzioni della ditta Pathé per l’esecuzione di “ritratti animati”.26
Un altro “topos” della cinematografia familiare dei Buil è la danza eseguita generalmente da una coppia di bambini o ragazzini della famiglia vestiti con costumi tradizionali. Si tratta del Jarabe tapatío, un ballo che ebbe molta diffusione nel Messico post-rivoluzionario perché assurto a simbolo dell’unità nazionale.27
Una strategia adottata da José Buil per far dialogare la contemporaneità con le immagini d’archivio del nonno e per mettere in relazione generazioni della famiglia che per motivi anagrafici non si sono potute incontrare è ancora una volta quella del reenactment: l’immagine di due bambini, la figlia e il nipote del regista, che indossando i costumi già usati dai loro antenati riproducono i passi del Jarabe tapatío, chiude il film con un simbolo forte di continuità tra generazioni e trasmissione della memoria, resa possibile in definitiva dalla passione per il cinema condivisa da un nonno e da un nipote.
La línea paterna uscì nel 1995, anno del centenario del cinema, e partecipò alla 52ª Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione “Finestra sulle immagini”. È stato poi in competizione a Cinéma du Réel, al festival di Mannheim-Heidelberg e ha vinto il premio speciale della giuria al festival di Trieste, il premio Silver Ariel per il miglior documentario lungometraggio in Messico, il Golden Precolumbian Circle per la migliore opera prima al festival di Bogotà e il premio UNESCO al festival di Gramado in Brasile. È stato anche proiettato al MoMA di New York e nei musei della Fondazione Guggenheim. In Italia non ha più circolato dopo il passaggio a Venezia e Trieste.
Mario Tolomelli
- Messico, 1995, 35 mm, b/n, 85’ ↩
- David M.J. Wood, Vestigios de historia: el archivo familiar en el cine documental y experimental contemporáneo, in: Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas, Vol. XXXVI, número 104, año 2014, p.115 ↩
- Jorge Ayala Blanco, La fugacidad del cine mexicano, Océano, México, 2001, p. 274 ↩
- Tutte le immagini qui riprodotte (salvo diversa indicazione) sono tratte da fotogrammi del film La línea paterna. La foto della casa è tratta da José Buil, La línea paterna, El milagro / Instituto Mexicano de Cinematografía, México, 1997, p. 57. Il volumetto raccoglie la sceneggiatura del film, accompagnata da alcune foto e da due utili testi introduttivi. ↩
- José Buil, cit. p. 57 ↩
- Così recita il secondo cartello che compare nel film (nostra traduzione). V. anche Buil, 1997, cit. P. 21 ↩
- Juan Rulfo, Pedro Páramo, Cátedra, Madrid, 1999. Capolavoro della letteratura messicana e mondiale, pubblicato originariamente nel 1955 e poco conosciuto in Italia, nonostante ne esistano tre traduzioni. Sull’argomento v. Barbara Destefanis, Sulla (s)fortuna di Juan Rulfo e Pedro Páramo in Italia, in: Artifara – Rivista di lingue e letterature iberiche e latinoamericane, luglio-dicembre 2002 ↩
- Rulfo, 1999, cit. pp. 63-65 (nostra traduzione) ↩
- Alejandro Medrano Platas, José Buil, Quince directores del cine mexicano, Plaza & Janés, México, 1999, p. 306, cit. in Jorge Ruffinelli, Del cine domestico al documental personal en América Latina. Cinco casos, in: La casa abierta. El cine doméstico y sus reciclajes contemporáneos, a cura di Efrén Cuevas Álvarez, Ocho y Medio, Madrid, 2010, p 238 ↩
- Platas, 1999, cit. ↩
- Iván Trujillo, La Filmoteca de la Universidad Nacional Autonóma de México, in Karen L. Ishizuka and Patricia R. Zimmermann (eds.), Mining the Home Movie: Excavations in Histories and Memories, University of California Press, Berkeley, 2008, p. 58 ↩
- Una descrizione analitica del film, scena per scena, è presente in: Itzia Fernández Escareño, Compilación y patrimonio “extraviado”. Reciclaje de material de archivo en el documental mexicano contemporáneo. La Línea paterna (1995) y Los rollos perdidos de Pancho Villa (2003), in: Screening the Americas / Proyectando las Américas. Narration of Nation in Documentary Film / Narración de la nación en el cine documental, Wissenschaftlicher Verlag Trier, Trier, 2011, pp. 327-329 ↩
- Primo cartello che compare nel film (nostra traduzione). V. anche Buil, 1997, cit. P. 21 ↩
- Ruffinelli, 2010, cit. p. 241 (nostra traduzione) ↩
- Alfonso Morales Carrillo, El hilo y la rueca, in José Buil, 1997, cit. p. 11 ↩
- Jorge Ruffinelli, Yo es/soy “el otro”: Variantes del documental subjectivo o personal, in Acta Sociológica núm. 53, septiembre-diciembre 2010, p. 68 (nostra traduzione) ↩
- Buil, cit. p. 28. ↩
- Paolo Simoni, La morte al lavoro. E in vacanza. Film di famiglia, tra riscoperta e oblio, in Cinegrafie, anno XV, n° 16, 2003 ↩
- Carrillo, 1997, cit. p.9 (nostra traduzione) ↩
- Per i dettagli sul rito: Ruffinelli, 2010, cit. p 240, nota ↩
- Álvaro Vázquez Mantecón, El Cine super ocho en Mexico 1970-1989, UNAM, Filmoteca, México, 2012, p. 29 ↩
- Nestor Almendros, El cine en México. Fragmentos, in Rene Palacios More, Daniel Pires Mateus (a cura di) El cine latinoamericano, o por una estetica de la ferocidad, la magia y la violencia, Sedmay, Madrid, 1976, pp. 163-164 (nostra traduzione) ↩
- Salvador Velazco, La linea paterna, palimpsesto filmico, in: El ojo que piensa. Revista de cine iberoamericano, año 3, núm. 5, enero – junio 2012 ↩
- Trujillo, 2008, cit. p. 58 ↩
- Buil, 1997, cit. pp. 29-30 ↩
- Ibid. p. 39. ↩
- Velazco, 2012, cit. ↩