Intervista al regista cileno Ignacio Agüero

Category : Film, Interviste

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El otro dia di Ignacio Agüero è un film saggio di straordinaria intensità. Il dispositivo iniziale è molto semplice: per un anno il regista filma all’interno della propria casa a Santiago del Cile, soffermandosi sui giochi di luce prodotti dai raggi del sole che filtrano attraverso le finestre e sulla vita del giardino attraverso le stagioni. Quando qualcuno suona il campanello Agüero gli chiede di andare a visitare la sua casa, facendo così uscire periodicamente l’occhio della telecamera e insieme quello dello spettatore dallo huis-clos casalingo.
La casa si presenta come un organismo che viene disvelato lentamente, prima attraverso piani ravvicinati, poi via via che il film procede compaiono dei piani intermedi e infine dei totali. Questo disvelamento lento, così come il carattere imprevedibile degli incontri, contribuiscono alla vivacità del film, fornendogli un efficace “drive”.
El otro dia è un film poetico, che lascia spaziare lo sguardo dello spettatore. In un film come questo, dal respiro calmo e meditativo, ogni variazione inattesa rispetto al linguaggio utilizzato fino a quel momento (la comparsa di un dolly, l’uso della camera a spalla in casa) ha un effetto straordinariamente potente (come nel film di Chantal Akerman Hotel Monterey, dove la comparsa di un carrello dopo un’ora di piani fissi ha l’effetto di una detonazione).
Pur senza avere un “tema”, o un “argomento”, il film diviene in modo quasi spontaneo, con straordinaria naturalezza, il luogo di incontro tra storie familiari del regista, le storie delle persone che suonano alla porta e la storia del paese, il Cile. Questo effetto di naturalezza è in realtà il risultato di una sapiente costruzione in cui la linea armonica dell’interno si intreccia con le linee melodiche delle storie esterne.

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 Intervista realizzata il 28 marzo 2013 a Parigi al festival Cinéma du Réel

Il suo film è strutturato come una novella orientale: c’è una cornice, costituita dalle immagini girate all’interno della casa, che contiene altre storie. Ogni volta che qualcuno suona alla porta c’è una nuova storia che inizia, per poi concludersi e lasciare spazio ad altre storie… È per sperimentare la grande libertà lasciata da questo dispositivo, che prende direzioni inattese sul filo degli incontri, che ha fatto questo film?

In realtà faccio documentari per la libertà creativa che questo genere permette. Mi pare che il documentario sia uno spazio dove si può esercitare quotidianamente la libertà di creazione. Questa libertà l’ho sperimentata in quasi tutti i documentari che ho fatto. In questo film ho tentato un esperimento, l’idea era di fare un film sull’esperienza umana di stare in un luogo, il che significa che non succederà niente, o almeno niente di molto spettacolare. Non è necessario che succeda qualcosa di spettacolare. Anzi, è proprio necessario che non succeda niente di spettacolare per poter perseguire l’esperienza dello stare in un luogo. Ho certamente lavorato con la massima libertà. La prima libertà consiste nel non aspettarsi un risultato, cioè nel filmare senza garanzia che ne risulti poi un film. Questa è la libertà più grande che ci sia, e fa sì che nel film possano entrare cose che non potrebbero starci se ci fosse un proposito ben definito.

Quel che si vede nel film è puramente frutto della scoperta quotidiana e degli incontri? O c’erano altre idee all’inizio a parte il fatto di filmare all’interno della casa e di filmare chi suonasse il campanello?

Ovviamente si tratta di un luogo che conoscevo molto bene, essendo casa mia… quindi avevo osservato molto, una osservazione costante, e in particolare mi affascinava la luce del sole, che entrando dalla finestra e muovendosi produce un numero infinito di immagini diverse con il passare del tempo, perché la luce cambia lo spazio. Si producono immagini diverse, durante il giorno e con il passare delle stagioni, in uno stesso spazio. Questo mi affascinava, e questo era un film che avevo in mente, a cui volevo dare una forma, avevo molta voglia di filmare la luce: la luce illumina gli oggetti, e gli oggetti cominciano a raccontare, a parlare, perché sono illuminati. Erano immagini senza scopo preciso, prodotte in una sorta di estasi ludica, che ha portato alla generazione di idee, di spunti. C’è una osservazione precedente all’inizio delle riprese, però al momento di girare si cancella tutto perché è come se si vedesse tutto per la prima volta.

Ignacio Agüero

Ignacio Agüero

Ci sono in realtà due luoghi nel film, l’interno, che è il luogo più statico, e l’esterno, il giardino, dove c’è movimento, ci sono gli uccelli che si bagnano nell’acqua, il gatto che passa… Questo modo di filmare il giardino attraverso le stagioni mi ha fatto pensare a El sol del membrillo di Victor Erice: il fatto di volgere lo sguardo anche verso il giardino è venuto in un secondo tempo, o faceva parte dell’idea iniziale?

No, anche il giardino aveva sempre attirato la mia attenzione, in particolare mi avevano sempre affascinato gli uccelli che facevano il bagno: il tempo e le infinite cautele che impiegavano prima di scendere a fare il bagno nell’acqua. Poi però filmando tutto cambia, perché li vedo attraverso l’obiettivo, li vedo molto da vicino ed è come se li vedessi per la prima volta. Vedo anche uccelli che non sapevo venissero nel mio giardino, perché pensavo fossero tutti zorzales [merli sudamericani], invece ho scoperto che c’è il picaflor [colibrì], poi un altro uccello raro con gli occhi rossi, e anche il picchio, che ho filmato molto ma che è stato eliminato in montaggio. Quindi filmando la capacità di osservazione si acuisce.

Ci sono dei brani di musica in alcune sequenze: Beethoven, Bach, suonati da Glenn Gould… da cosa è nato l’inserimento della musica in un film come questo, così essenziale?

La prima musica che si sente era nel suono diretto della ripresa: c’era lo stereo acceso in casa. Poi in seguito questa cosa l’ho riprodotta, quando apro la porta e delle persone entrano o anche come suono ambientale in certe riprese… è un gioco, naturalmente, ma un gioco nato durante le riprese.

Mi sono chiesto se ci fossero molti altri personaggi (visitatori alla porta), che non sono poi entrati nel montaggio finale…

Sì, ce n’erano molti di più…

Nel film compare ogni tanto una mappa della città dove viene indicata con delle puntine la posizione delle case visitate (le case di chi ha suonato alla porta), e sono molte di più di quelle che si vedono nel film…

Sì, ce n’erano molti di più anche di quelli che si vedono sulla cartina, perché tanta gente mi ha suonato al campanello, però alla fine del montaggio ne sono rimasti sei.

Ignacio Agüero con Federico Rossin, curatore della rassegna “Cile 1973-2013″ a Cinéma du Réel

Ignacio Agüero con Federico Rossin, curatore della rassegna “Cile 1973-2013″ a Cinéma du Réel

Tra le persone che suonano alla porta c’è anche una ragazza neolaureata che ha trovato l’indirizzo di casa sua su internet, in quanto sede della sua casa di produzione, e si presenta per lasciare il proprio curriculum. È l’unica a essere filmata con la camera a spalla, come mai?

È molto semplice: mi ha colto di sorpresa mentre stavo uscendo di casa e non ho avuto tempo di mettere la telecamera sul treppiede…

La ragazza è di Valparaíso, la visita a casa sua è un bel momento del film…
E l’idea del dolly come è nata?

In realtà il dolly c’è in tutti i miei film. È un dolly minimo, però necessario. Perché mi piace quel muro di mattoni, il muro della casa accanto alla mia, mi piace il colore, la superficie, e scoprire la città in questo modo, oltre il muro, sopra il tetto, e la cordigliera delle Ande, fino ad allora rimasta invisibile: è necessario, dà un’altra dimensione…

In effetti l’ho trovato un momento molto forte, perché arriva del tutto inatteso…
Mi ha detto prima che considera il documentario in generale come uno spazio di libertà creativa, però rispetto a tutti i suoi film precedenti, che avevano un soggetto prestabilito, ha percepito una maggiore libertà nel fare questo film?

Sì, questo film rappresenta per me un passo avanti rispetto ai precedenti, si tratta di elementi che erano già presenti negli altri film, però qui si produce una maturazione, la maggior libertà che caratterizza questo film rispetto a quelli precedenti consiste nel fatto che qui non c’è niente da raccontare, c’è solo da guardare, guardare: cinema puro. Anche negli altri film si guardava, però in qualche modo c’era una tensione tra guardare e raccontare; qui invece il racconto scorre molto naturalmente, perché non c’è la necessità di farlo…

Alla fine delle storie sono raccontate, però è vero, in modo molto naturale…

Per me sono delle scoperte, però la cosa interessante è che tutte le scoperte provengono da una scommessa iniziale, che è stare in un luogo, riprodurre l’esperienza di stare in un luogo.

Un’altra cosa che ho trovato interessante è il riferimento alle “vite precedenti” dei mobili, è come se il mobile da oggetto inanimato si trasformasse in qualcosa di vivo, è una cosa che mi affascina moltissimo…

… Anche a me… Perché sono oggetti che si trovano sempre nei film, ma nessuno ci bada, e in questo film mi piace molto come diventano protagonisti, a causa della luce che li percorre, ma anche la loro forma, la sensualità del legno e delle forme attira l’attenzione perché in un film che è sullo stare in un luogo quello che apparentemente è banale appare come principale.

M.T.

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Ignacio Agüero, nato nel 1952, è uno dei più importanti documentaristi cileni.  Sul sito Cinechile, enciclopedia del cinema cileno, è presente una sua dettagliata biografia, le schede di tutti i film, diversi articoli e interviste (in spagnolo):
http://www.cinechile.cl/persona-102

Pagina Facebook del film El Otro dia

Intervista a Ignacio Agüero sul film El otro dia, con sequenze dal film (dal sito chiledoc.cl):

Intervista alla montatrice del film, Sophie Franca (dal sito chiledoc.cl):

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